La resilienza nello sport

La resilienza è un concetto mutuato dalla fisica che fa sì che un corpo possa essere flesso e distorto, ma con la capacità di tornare alla forma originaria. In psicologia la persona resiliente è colei che a seguito di un trauma o di una difficoltà è in grado di ritornare ad essere quella di prima o addirittura meglio di prima. Ci sono diversi fattori che vanno a costituire e nello stesso tempo a formare la resilienza in un individuo, alcuni di questi sono: avere un supporto sociale e saper cercare aiuto, prendere delle decisioni, saper accettare le situazioni che non possono essere controllate o cambiate, porsi obiettivi realistici, sviluppare abilità di problem solving, avere aspettative positive sul futuro, prendersi cura di sé, aiutare gli altri, ecc. (Moé, 2010). Quindi possiamo parlare di tre livelli per costruire la resilienza: il primo che si basa sulle relazioni affettive, il secondo sul senso di autoefficacia e su aspettative positive e il terzo sull’impegno verso sé stessi e verso terzi. La sperimentazione di sentimenti ed emozioni positive tende a diminuire i livelli di cortisolo, quindi la percezione dello stress, riduce il rischio di molti disturbi sia psichici che fisici e permette un recupero migliore dalle difficoltà. Il costrutto della resilienza è oggi utilizzato in molti ambiti applicativi sia psicologici che di altri settori professionali e sempre di più questo concetto viene studiato nei suoi risvolti pratici in ambito sportivo per comprendere la capacità degli atleti di resistere allo stress e al modo con cui affrontare le più grandi sfide sportive. In letteratura la resilienza è sempre stata oggetto di discussione e non è mai stata veramente trovata una definizione univoca. I due principali approcci che cercano di descrivere questo concetto lo considerano come un tratto di personalità (Rutter, 1979, 1985) oppure come un processo di adattamento positivo a condizioni di avversità (Olsson, Bond, Burns, Vella-Brodrick & Sawyer, 2003). Nel primo caso si fa riferimento ad una caratteristica di personalità che vede il soggetto capace di adattarsi alle avversità della vita e a superarle, ritrovando l’equilibrio perduto. Nella seconda accezione ci si riferisce, invece, ad un processo dinamico che può variare nel corso degli anni e che, dunque, non rimane stabile per tutta la vita. La Werner (2012) sostiene che un individuo che si è mostrato resiliente nel corso dell’adolescenza, può, negli anni successivi, mancare di questa abilità, perché la vita cambia e non sempre si rimane uguali a prima. Trabucchi (2007) scrive, d’altra parte, che ciascuno di noi ha il dono di possedere un insieme di risorse che possono essere definite come resilienza. Egli afferma:<< La resilienza psicologica è la capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontreranno sul cammino. Il verbo “persistere” indica l’idea di una motivazione che rimane salda. Di fatto l’individuo resiliente presenta una serie di caratteristiche psicologiche inconfondibili: è un ottimista e tende a “leggere” gli eventi negativi come momentanei e circoscritti; ritiene di possedere un ampio margine di controllo sulla propria vita e sull’ambiente che lo circonda; è fortemente motivato a raggiungere gli obiettivi che si è prefissato; tende a vedere i cambiamenti come una sfida e come un’opportunità, piuttosto che come una minaccia; di fronte a sconfitte e frustrazioni è capace di non perdere comunque la speranza>> (Trabucchi, n.d.). L’autore ha individuato quattro abilità cognitive che caratterizzano la resilienza nell’atleta che pratica sport di resistenza: senso di controllo, tolleranza alla frustrazione, capacità di ristrutturazione cognitiva e attitudine alla speranza (Trabucchi, 2000). Questi fattori vanno a costituire quello che è stato chiamato il modello della “Personalità Resistente”. L’abilità di gestire gli stressors è una caratteristica fondamentale nell’atleta resiliente e alcuni autori hanno indagato la presenza di stili cognitivi in seguito ad un successo o ad un insuccesso sportivo (Martin-Krumm, Sarrazin, Peterson & Famose, 2003). Lo stile cognitivo con cui un atleta legge il successo o l’insuccesso influenza anche la sua capacità di affrontare in maniera più o meno adattiva gli eventi. Gli autori hanno trovato che atleti con uno stile cognitivo più ottimistico riportavano valutazioni più positive di insuccessi rispetto ad atleti con uno stile cognitivo pessimistico. Alla resilienza sono stati associati i concetti di mental toughness e psychological hardiness. Da una ricerca di Jones, Hanton e Connaughton del 2002 la mental toughness è descritta come un’abilità psicologica che permette di adattarsi meglio degli avversari alle circostanze, ad essere più determinato, concentrato, fiducioso, resiliente e avere maggiore controllo sotto pressione. La psychological hardiness è un’altra abilità psicologica descritta da Kobasa (1979) con le qualità di impegno, controllo e sfida. La resilienza può essere “allenata” così come lo stesso Trabucchi (2007) afferma nel suo lavoro. Egli individua tre aspetti che è necessario modificare per aumentare i livelli di resilienza: 1) modificare le proprie modalità distorte di valutazione cognitiva 2) aumentare il senso di autoefficacia 3) migliorare il rapporto tra il nostro piano cognitivo e quello fisiologico. Rifacendosi alle recenti ricerche in ambito neurofisiologico (Pert, 2000) che sostengono l’esistenza di un legame tra il modo in cui noi strutturiamo le nostre valutazioni cognitive e il funzionamento corporeo, l’autore afferma che l’atleta, nel momento in cui pensa di non poter raggiungere un obiettivo, “spinge” il suo corpo a limitare il proprio funzionamento per la realizzazione di quell’obiettivo (Trabucchi, 2007). Se il nostro cervello influenza così tanto il nostro corpo e viceversa, pensiamo alle recenti scoperte sulla neuroplasticità, allora significa che se cambiamo la nostra valutazione cognitiva anche il nostro cervello col tempo subirà delle modifiche.